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Una idea di letteratura
Alpha Kaba, il sopravvissuto. Il racconto della fuga dalla Guinea attraverso l’inferno dei lager libici

di Domenico Quirico

La Stampa 08-01-2021

Attenti! Se pensate di leggere questo libro come una autobiografia o un saggio, l’ennesimo, sulla Migrazione e sulle mestizie della Libia, rischiate di farvi male, di deglutire inutili lacrime amare. Le pagine di Schiavi delle milizie sono pericolose, scottano come carboni ardenti. Dovete sfogliarle stringendo i pugni, esigendo, furibondi, giustizia. Perché state strofinando un documento di accusa, le pagine di un verbale che prima o poi verrà brandito nei tribunali, quelli veri con i giudici gli avvocati le pene. Che dovranno essere tremende come i peccati da castigare.
I romanzi sulla migrazione, i saggi sociologici sui migranti, le raccolte di interviste: uffa, che inutile segatura! In queste 142 pagine pubblicate da Quarup si scoperchiano le porcherie e le ipocrisie di un delitto politico, quello che hanno commesso in deliberato e perdurante concorso con la Unione europea i governi italiani che dal 2017 hanno affidato il controllo dei migranti alle milizie criminali che si ammucchiano nella Libia del dopo Gheddafi. Insomma quella che ci imboccano come la riuscita strategia italica per risolvere il problema della immigrazione.
Attenzione: i criminali non sono i piccoli sgherri, i sanguinari bravacci armati di Kalashnikov e bastone che Alpha Kaba, l’autore, e i suoi compagni di sventura, purtroppo, hanno incontrato a Tripoli e dintorni. Quella è sudicia manovalanza. Parliamo degli altri. Dei registi, dei burattinai; delle anguste menzogne di chi ci assicurava che in Libia, grazie a noi, si prendevano cura dei migranti, tenendoli lontani dalla nostra vista inquieta. E in cambio di questa gran trovata chiedevano applausi e consenso elettorale. Vedete: i migranti non arrivano più, era così facile, eureka! Un abbraccione tra destra e sinistra perché la xenofobia non ha etichette ideologiche.
Per questo non abbiamo bisogno di letteratura, abbiamo bisogno di prove. E Kaba, implacabile, ce le squaderna. Con la meticolosità a cui hanno diritto solo le vittime. Il libro si dovrà leggere a voce alta quando alla sbarra ci saranno ministri degli interni, presidenti del consiglio, il ciarpame dei Servizi. Ci sono le loro facce e firme sotto gli accordi e le cospicue mance alle canaglie tripoline, come ricorda Nello Scavo nella prefazione: il via libera e i trenta denari versati per sequestrare, torturare, rendere schiavi esseri umani, creare con i disprezzati «negri»’ un libico gulag a basso costo. Il baratto criminale, questo si deve punire. Ci avete resi complici, tutti noi, di ognuno di quei delitti che Kaba racconta. Non ve lo possiamo perdonare. Dire giustizia è pronunciare una tale parola dirompente che si sussulta sempre sentendola ripetere. Quando si accantona un codice, la morale perde di assolutezza.
Attendevamo Kaba, la sua scrittura semplice e densa con impazienza: prove a carico, documentate testimonianze personali, in prima persona, di chi ha subito le torture, può sollevare la camicia e mostrare alla Corte, una ad una, le piaghe delle bastonate dei colpi di fucile delle frustate delle violenze sessuali. Oh, ci proveranno, i loro avvocati, a dire che sono le solite invenzioni dei giornalfantasisti, episodi non provati e non documentabili, accuse strumentali di altre parrocchie politiche. Ma con Kaba non funziona: questi sono fatti, luoghi, date, nomi.
Un migrante come Alpha Kaba è un uomo che avanza senza meta e senza calcolo verso un fato ignoto. Il suo modello perfetto è il figliol prodigo quando si diresse verso la casa del padre. Una delle qualità più notevoli delle parole «migranti» e «migrazione» sta nella loro ampiezza semantica. Deve contenere i siriani sopravvissuti a Assad e al califfato e gli afgani che non amano le aspre virtù talebane, i relitti del jihad e della desertificazione, e chi fugge da città di sudiciume, luoghi che si decompongono, monumenti alla morte, allo squallore, al vuoto.
E coloro come Alpha Kaba, che lavorava come giornalista in una piccola radio di una città senza storia della Guinea Konakry. Non è un oppositore, non sogna rivoluzioni, fa quieta cronaca di un po’ di tutto, sport, vita studentesca. Un giorno deve fuggire perché gli sgherri di Alpha Condé, il presidente, gli danno la caccia: ha semplicemente raccontato, in una diretta, che in piazza la gente ha fischiato il Benamato, la Guida, il Supremo.
Ecco: uno dei mille modi con cui si diventa migranti. Si fugge con un piccolo zaino, senza piani, senza una meta. Con solo il numero di telefono di persone che forse lo potranno aiutare nel viaggio, in Algeria e in Mali. E che non risponderanno mai.
La migrazione di quest’uomo diventa una metafora della vita e non solo della vita. Anche lui come Peter Pan potrà dire: «Morire sarà una grandissima avventura». Kaba è sopravvissuto. Con il barcone è arrivato a Messina. Ora è in Francia, fa il magazziniere, vive di stenti. La moglie e i genitori intanto sono morti. Dice che è stato fortunato. Lui ha diritto ad avere giustizia. Noi abbiamo diritto ad avere giustizia.

Se pensate di leggere questo libro come una autobiografia o un saggio, l’ennesimo, sulla Migrazione e sulle mestizie della Libia, rischiate di farvi male, di deglutire inutili lacrime amare. Le pagine di Schiavi delle milizie sono pericolose, scottano come carboni ardenti