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Cronache da un’impossibilità

(12 recensioni dei clienti)

13.00

È possibile ridursi a telefonare a se stessi sperando di ottenere risposta?
Si può partire per l’ultimo viaggio preparando prima ogni cosa, come se si trattasse di uno dei tanti? In questo libro di Mia Lecomte sì: qui tutto è possibile, realizzato, e tutto insieme tecnicamente impossibile.

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Descrizione

È possibile ridursi a telefonare a se stessi sperando di ottenere risposta?
Si può partire per l’ultimo viaggio preparando prima ogni cosa, come se si trattasse di uno dei tanti? In questo libro di Mia Lecomte sì: qui tutto è possibile, realizzato, e tutto insieme tecnicamente impossibile. “Sono episodi della nostra vita più reale, quella che non abbiamo mai vissuto e non ci somiglia per niente”, è costretto ad ammettere, a nome di tutti gli altri personaggi della raccolta, il protagonista di uno dei racconti.
“Drammi sentimentali ed economici, tragedie personali ed epocali. Con le inevitabili commedie della quotidianità più trita e sofferente, anche esilarante”. Epicentro di tutto è l’amore. Un amore spaesato e necessario che si insinua tenacemente dove non è voluto, manifesta la sua forza inevitabile nelle forme più inopportune, incurante della morale e dell’estetica, dei corpi e delle anime, e che rende tutti “come felici, intanto”.
In un passaggio squisitamente autobiografico, distillato del senso di estraneità che affligge gli autori quando si riconfrontano con le proprie opere, Mia Lecomte affida a una delle sue creature il compito di comunicarci una verità che riguarda tutti: “Non è semplice, niente. E non piace quasi mai, non può piacere”.

Mia Lecomte
Mia Lecomte, poetessa e scrittrice, è nata a Milano nel 1966 e vive attualmente tra Roma e Parigi. Presente in numerose riviste e antologie in Italia e all’estero, fra le pubblicazioni si ricordano le raccolte poetiche Terra di risulta (2009), Intanto il tempo (2012) e For the Maintenance of Landscape (collected poems, 2012).
Studiosa di letteratura transnazionale italofona, è ideatrice e membro della Compagnia delle poete (http://www.compagniadellepoete.com/).
È redattrice del semestrale di poesia comparata «Semicerchio» e di alcune riviste letterarie online, e collabora all’edizione italiana de «Le Monde Diplomatique».

Informazioni aggiuntive

Autore

Collana

ISBN

9788895166377

Pagine

144

Formato

14×21

12 recensioni per Cronache da un’impossibilità

  1. Bernardo Cirillo

    A Radioquestasera: Mia Lecomte, poeta, narratrice.
    di Bernardo Cirillo, Radioquestasera, 2016

  2. Andrea Brancolini

    Cronache da un’impossibilità
    di Andrea Brancolini, Lankelot, 26 febbraio 2016

    Cronache da un’impossibilità, pubblicato da Quarup, casa editrice pescarese, è la prima raccolta di racconti di Mia Lecomte, autrice di libri di poesia, testi teatrali, libri per l’infanzia, traduttrice, saggista, scrittrice che, dunque, mette alla prova la sua scrittura in più forme, e non mi sembra un caso che prima di un romanzo sia giunta ai racconti, forma che forse permette di sperimentare qualcosa in più, o che almeno ne dà l’impressione. Essendo questo il mio primo incontro con Lecomte ho cercato qualche informazione, date le sue variegate attività scrittorie, e ho letto anche un paio di interviste, dove in una di queste (su sololibri) ho trovato qualcosa di interessante riguardo proprio a questa raccolta, che oltre a esplicare il tema delle storie mi è sembrata per certi versi curiosa: “È una raccolta di racconti più o meno recenti, scritti nel corso degli anni “in margine” alla poesia. Trattano tutti di situazioni impossibili, amorose in particolare, riconducibili ad un’unica impossibilità: quella di essere, di esserci. Insomma, sono tutte autobiografie non vissute – come si intitolava una mia raccolta poetica del 2004 – , ma confesso che il fatto che siano esposte in una pubblicazione, mi crea anche un certo imbarazzo, disagio. Abituata ai travestimenti, anche solo musicali, della poesia, ritrovarmi così, in déshabillé, alla mercé del racconto, mi riporta di colpo al panico dell’adolescenza, nascosta nella toilette di una festicciola… Ti sto leggendo, mi dicono gentilmente gli amici, e non sanno fino a che punto, e con che conseguenze, sia vero”.

    Ciò che ho trovato curioso è la considerazione del racconto come forma di nudità rispetto alla scrittura poetica, a quella teatrale, perché di primo acchito verrebbe da dire il contrario: che la poesia è una messa a nudo di sé stessi, che il palco del teatro ci scopre. Certo l’abitudine a una forma di scrittura, l’esperienza nell’uso, danno a chi scrive possibilità di “travestimento”, di frapporre fra sé e la pagina e chi legge strati proteiformi, e sempre una questione di abitudine, anzi, di mia non abitudine a considerare la prosa come estrema messa a nudo rispetto alla poesia mi ha fatto rimanere sorpreso. Poi c’è quella definizione di “autobiografie non vissute” che confonde, perché si tenderebbe a pensare a un racconto “nudo” come un racconto di qualcosa che è accaduto tal quale, di esperienze reali, mentre quel “non vissute” getta tutt’altra luce, un “non vissute” che credo sia da intendersi limitando i confini del “vissuto” ai fatti (anche se credo si viva pure l’immaginazione). Non essendo vissute, non possono essere altro che immaginate, desiderate, sognate, pensate. Non essendo il vissuto “in déshabillé” è quindi l’immaginazione e l’imbarazzo non è relativo al corpo, ma al pensiero, alla propria capacità immaginativa? Si è più svestiti quando lo è il nostro corpo o quando esprimiamo fino in fondo ciò che agita la nostra mente?

    A questi dieci racconti non interessa tanto rispondere a tali domande, né rispondere ad altre, ponendo l’impossibilità al centro della narrazione, l’impossibilità per una persona di esserci per un’altra, ma anche per sé stessa, l’impossibilità di comunicare veramente sia con gli altri che con sé, l’impossibilità di distinguere fra reale e ideale, fra dato fisico e la sua proiezione mentale, fra la considerazione che altre persone hanno di te, quella che tu pensi che le altre abbiano e quella che tu hai per te. Non sono racconti piani, sono storie che richiedono attenzione, che giocano e che ti chiedono di giocare, di abbandonarti per poterle gustare, di travalicare confini fra detto, non detto, immaginato, pensato, fra razionalità e irrazionalità, sogno. Per certo gusto teatrale, del dialogo, del surreale nel quotidiano, mi veniva all’inizio di accostare questa scrittura a quella landolfiana, e se per certi versi ci può essere una vicinanza rimane comunque maggiore la distanza.

    Sono cronache di abitazioni che non si possono abitare, da cui partire e a cui tornare, case, appartamenti e sì, corpi; non si può far altro che usare il pensiero, razionalizzare o sognare, discutere o rimanere in silenzio senza essere capaci di abitare davvero, di vivere i luoghi e le persone, persino le pagine. C’è lo scrittore dei tra parentesi dello scrittore famoso (forse ha anche uno scrittore per la punteggiatura, uno per gli aggettivi, uno per…?), la coppia in cui lei ha scelto (è stata scelta) il cane come amante, l’uomo della forma, la donna cui qualcuno ha occupato la casa, l’uomo che trova in libreria un libro scritto da qualcuno col suo nome e la sua faccia, la donna delle pulizie e l’uomo nella stanza d’albergo e così via.

    Torno al titolo, Cronache da un’impossibilità, e mi sembra che tutto ruoti intorno al mezzo con cui a me lettore arrivano queste cronache, alla parola, una parola che si fa tramite tra impossibile e esistente (io esisto, no?), che dunque nel mezzo trova una possibilità di esistenza, forse, che dall’impossibilità l’unico modo di comunicare con questo mondo è immaginarsi possibile. L’impossibilità scritta non è forse un po’ meno impossibile? Messa così può forse sembrare una riflessione sul ruolo della scrittura, chissà.

    “Chissà se il mio autore esiste realmente, e non sia piuttosto il risultato di un intelligente (o solo naturale) assemblaggio di costrutti. Se esistono gli scrittori (e i loro libri). Esiste almeno un solo scrittore? (e il suo libro completo?) Tutte domande inutili. Non è dato di saperlo, da contratto (una postilla in grassetto, in fondo). Tra parentesi.” (pag. 13)

  3. Francesco Tarquini

    Cronache da un’impossibilità di Mia Lecomte
    di Francesco Tarquini, Versante Ripido, 1 marzo 2016

    …Perché la vita è solo una piccola parte di tutto ciò che esiste”. Questo verso del poeta danese Søren Ulrik Thomsen fa da esergo al libro di Mia Lecomte, che raccoglie racconti scritti nel corso degli anni a lato di un intenso lavoro poetico e recentemente pubblicati da Quarup: Cronache da un’impossibilità. Titolo che sembra rivelare un’affinità d’intenti con quello di Autobiografie non vissute, raccolta poetica del 2004 in cui Lecomte scriveva, come già dialogando con il verso di Thomsen, “Vita è quello che rimane / quando si è perduto tutto”. Un forte segnale di continuità fra poesia e prosa nella ricerca di questa scrittrice dalla scrittura “sradicata”, come lei stessa dice di sé, cresciuta in una zona di confine, fra due lingue, studiosa del rapporto fra comunicazione e culture, osservatrice attenta, anche in sede universitaria ed editoriale, della scrittura in italiano di autori provenienti dall’immigrazione.
    Ma quale impossibilità evoca il titolo di questo libro? Titolo dal tono ossimorico, peraltro, se la parola “cronache” richiama connotati di veridicità, che l’accoppiamento con “impossibilità” dovrebbe escludere. Si tratta forse di un’impossibilità – una non verisimiglianza? – delle storie che vi sono narrate? “Credo che quello della verosimiglianza sia l’ultimo dei problemi”, afferma tuttavia la protagonista di uno dei racconti.

    L’impossibilità in questi racconti risiede in qualcosa che viene, per così dire, prima della narrazione stessa, vale a dire in quella grave difficoltà di individuazione di sé che ne caratterizza i personaggi: una frontiera dell’essere per raccontare la quale la sola via è, sembra dirci Lecomte, la ricerca di un “assoluto possibile” della scrittura, che l’autrice realizza supponendo situazioni rette da un totale straniamento della realtà fattuale e psicologica. Non è allora tanto un’abile capacità tecnica, innegabile peraltro, ma piuttosto la stringente necessità di un mondo immaginato che anela alla propria forma, a strutturare la narrazione secondo modalità proprie della letteratura fantastica, evocando echi di Sudamerica al punto che è lecito citare, come qualcuno ha fatto, il nome di Julio Cortázar: direi soprattutto per alcuni dei racconti, come L’ospite, Al compleanno, Ritorna.

    Cronache da un’impossibilità dice dell’amore. Della frontiera fra desiderio e realtà. Della frontiera interna allo stesso amore. E lo dice in una prosa tersa, asciutta senza secchezza, all’interno della quale trovano il loro posto un filo ironico e quell’attitudine al gioco spesso palesi nel lavoro dell’autrice. Una figura, quella della frontiera, al tempo stesso mito letterario e non evitabile prova esistenziale, ben radicata nell’esperienza personale di Mia Lecomte e nel suo percorso di poeta e di intellettuale che in più di un’occasione, del resto, si è rivelata studiosa e autrice di fiabe. E le fiabe ci dicono che di fronte a un “dentro” spazialmente limitato e per questo altamente protettivo, sta un “fuori” di grandi dimensioni, sconosciuto, pieno di pericoli ignoti. Su questo si basano le fiabe, esistono per questo. Andare dal dentro al fuori, e poi tornare ricchi di esperienza. Oltrepassare una frontiera, Jurij Lotman ci insegna, vuol dire lottare contro l’organizzazione del mondo. A partire, nel libro di Mia Lecomte, da un senso di essere fuori posto. Dalla difficoltà di “individuare un centro da cui espandersi”.“Come definiamo i confini di noi stessi?”, si domanda infatti la protagonista de L’ospite. La quale è uscita senza motivo evidente, e senza esserne stata cacciata da nessuno, dalla propria casa, come allontanata da un improvviso senso di esclusione. E dai bar e cabine sulla strada, o dall’anonimato della pensione in cui si è trasferita, continua a telefonare a se stessa, per sentirsi rispondere da una voce maschile sconosciuta e tuttavia nota; e su di essa affabula senza parlare, affabulare come evocare e ricordare, descrivere minuziosamente il corpo immaginato di quell’uomo che occupa casa sua, nudo nel bagno, fino in dettagli per i quali ipotizza varianti e al quale inventa una vita. In una strategia di avvicinamento senza altro risultato che continuare a udire quella voce al telefono, a intravvedere una figura maschile dietro le tende del proprio salotto. E poi, così come era cominciato, tutto finisce. La donna torna a casa. Dentro non c’è nessuno e tutto è rimasto come lei lo aveva lasciato.

    Una storia di intenso mistero, che lascia tuttavia emergere il proprio senso profondo, la necessità di partire da noi stessi, di muoverci verso noi stessi per cominciare a costruire il percorso di apertura verso il mondo. Uscire dallo spazio protetto, avventurarsi al difuori, per riuscire a mettere in salvo – questo a me pare il senso generale del libro – ciò che rischia continuamente di perdersi, elementi preziosi della vita, delle singole vite, preziosi nella propria apparente insignificanza, parole dette o pensate, sentimenti incerti, “episodi della nostra vita più reale – viene detto nel racconto A episodi –, quella che non abbiamo mai vissuto e non ci somiglia per niente”. È proprio su questo tema del salvataggio della vita che si innesta un dualismo vita vs letteratura, vita vissuta vs vita narrata, caro a Lecomte e raccontato con leggerezza in Costrutti, il racconto che apre il libro: storia di uno “scrittore di parentesi”, nei cui scritti tutto ciò che davvero conta per raccontare in profondità e ricchezza una vita è messo tra parentesi, come espulso dal discorso letterario. Forse segnalazione di una frontiera dell’aridità come pericolo che incombe sulla letteratura, segnalazione che trova una sua risonanza in A episodi, dichiarazione di un intenso amore per la parola, di cui si denuncia la violazione e lo sfruttamento operato da ogni forma di potere.

    I personaggi di queste “cronache” hanno a che fare, coscienti o no, con le loro frontiere; spesso perdendovisi, come accade al protagonista di Abitando: il muro che si è costruito intorno per isolarsi da quello che ritiene il disordine della vita, si infrange miseramente, travolto infine dalla vita stessa e dalle sue svolte imprevedibili, nella rivelazione forse solo ipotetica di un amore non vissuto. E anche l’atemporale Noè de La salvezza è destinato a perdersi dinnanzi alla frontiera invalicabile di norme imposte da un’autorità sconosciuta e lontana, abbandonando così la propria amata alla catastrofe in forza dell’editto cieco e crudele “moglie legittima e figli, animali accoppiati”. In Ritorna un uomo “non ancora assuefatto all’idea di esistere” scopre in libreria un libro sconosciuto che risulta scritto da lui stesso e che porta in quarta di copertina la sua fotografia. Intuisce, o capisce, o crede di capire mentre avanza nella lettura, che la vera autrice è una donna amata, che lo ha scritto perché lui potesse prima o poi leggerlo, e tornasse da lei. Il libro funziona dunque paradossalmente come una richiesta amorosa nella quale il protagonista vede rispecchiarsi il suo stesso desiderio.

    La frontiera che attraversa il libro è dunque essenzialmente quella fra il maschile e il femminile: “Quel femminile, senza distinzioni, dell’insondabile inespresso maschile. Della memoria e dell’aspettativa”, è scritto ne L’ospite. Fra quell’ “inespresso maschile” per il quale solo esiste “la donna”, sintesi e ipostasi di tutte le donne, e l’identità femminile, come identità singola, personale, e come tale di volta in volta riconosciuta. La tensione fra lo spazio di dentro del maschile, e lo sconosciuto spazio di fuori del femminile, produce l’impossibilità. Così l’amore è qualcosa di continuamente desiderato e continuamente sfuggente: vivibile, appunto, nella solitudine del desiderio. È forse lecito qui un richiamo a Gli amori difficili di Calvino: storie di disincontri, dove però è il disincontro stesso a costituire l’essenza della relazione amorosa.

    Dalla solitudine emerge tuttavia un elemento di salvezza: il corpo.“La carne che vuol essere allegramente eroica, o tragica – cito ancora una volta L’ospite – …la carne che sa della propria precarietà e ne trae piacere, prima di farsi strategia mediocre del vivere, arresa al solito purgatorio”. Pare a me che Lecomte invochi per il corpo analogo cammino a quello da lei preteso per la parola: la liberazione dal potere – che ne ha fatto, come dice Umberto Galimberti, “il negativo di ogni valore” –, come in un recupero della sua primitiva forza di irradiazione simbolica. Al corpo, alla sua unicità si appella dunque l’autrice, come un appiglio contro l’impossibilità e in un approccio denso di dettagli, in cui tutti i sensi entrano contemporaneamente in gioco, producendo un insieme di segni che restituiscono al corpo la sua identità di soggetto che comunica.

    Ed è proprio la forza comunicativa del corpo a trionfare nel racconto che chiude il libro, In exitu, in cui un aspirante suicida recatosi in un paese straniero di cui ignora la lingua per ricevere la “dolce morte”, per un equivoco finisce per trovarsi non già nella stanza a lui destinata in una clinica ma in quella di un albergo a ore. Ignaro, viene preso in un istintuale, naturale rapporto erotico con una altrettanto ignara cameriera alla quale ha rivelato, non compreso, la propria vicenda, e al quale lei ha narrato, altrettanto incompresa, la propria. Il puro suono del linguaggio ha creato il rapporto amoroso: “Sono insieme, in fondo. Più in fondo. Come felici, intanto”. Un trionfo del corpo, che infrange la barriera della comprensione linguistica e si fa esso stesso, e consapevolmente, linguaggio. Ritorna nel finale l’immagine della pelle dell’uomo: “lei può ritrovargli quella pelle sottile, quel profumo che aveva sentito all’entrata”, ricongiungendosi idealmente all’immagine de L’ospite: “Degli uomini mi piace la pelle, l’involucro, il rivestimento… Non mi interessano le forme, le dimensioni. Solo la pelle che le riveste”.

    C’è nei gesti di questa donna estranea e straniera un’immensa dolcezza. Un porsi davanti alla sessualità come davanti a un’epifania. In cui non c’è supremazia, non c’è possesso, ma un darsi e prendere che sembra portare le tracce di una forma del divino.
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  4. Gianluca Garrapa

    Cronache da un’impossibilità
    di Gianluca Garrapa

    È impossibile tradurre in altre parole le parole che costruiscono le cronache ultraquotidiane di Mia Lecomte. Forse perché la linearità omologante ci ha stordito e leggere questi dieci episodi ha lo stesso effetto d’entrare in una stanza dopo essere stati per ore alla luce del sole. Ma l’impossibilità non è nel campo dell’inesistenza, bensì in quello della vita tout court, del possibile all’improvviso, dell’illuminazione al contrario che ci fa vedere le cose per quello che sono e non per quello che appaiono. Innanzitutto: è possibile che siamo all’interno di un sogno sognato da qualcun altro, è forse probabile che siamo agitati e mossi da altro, dal linguaggio che ci precede, dal nome che ha costruito le nostre relazioni e che non abbiamo scelto seppur indossiamo: chissà se il mio autore esiste realmente, e non sia piuttosto il risultato di un intelligente (o solo naturale) assemblaggio di costrutti: la prima cronaca, Costrutti, ci porta per mano attraverso un giardino di fragranze identificabili fino al limite di una radura dove ci meraviglia scoprire che non eravamo noi a condurre lo sguardo, e che se ci immaginavamo d’essere i protagonisti, be’… dobbiamo ricrederci e il dubbio si chiarisce: il personaggio, è lui addirittura che costruisce il suo autore. L’atmosfera richiama Borges e la stessa aria si respira nei successivi racconti. Eppure non sappiamo mai fin dall’inizio cosa potrebbe succedere. La scrittura è piana, precisa, a volte telegrafica, a volte articolata e poetica. I personaggi mutano. I punti di vista. Anche all’interno dello stesso racconto. L’ospite, ad esempio, la seconda cronaca, ci presenta una quotidianità commossa e rassegnatamente desolata, eppure misteriosa. Ci fa riflettere: che cos’è l’intimità? E ci mostra, anche, percorsi meno metafisici: le cose, le cose che stanno lì e le piccole necessarie certezze, i dettagli: l’acqua della cannella, grazie al cielo, è ancora potabile.

    E di pari passo l’estraneità che ci coglie spesso negli abbandoni: ormai ho imparato a conoscerla quell’altra che non sono io, quelle altre che non siamo noi. Tutto si gioca, come nel naturale svolgersi dell’esistenza, negli interstizi, nei passaggi, sulle soglie: la linea di confine è molto sottile e passa giusto accanto al desco della signora Bruna. E di nuovo, la complessa trama del vivere, si scioglie nel piacevole riconoscimento degli atti: sta passando un piumino per la polvere su mensole e ripiani, uno straccio nell’altra mano. Perché in questa scrittura c’è sempre la coscienza, oltre che la presenza, dell’altro, dell’essere insieme, dell’essere impossibile dell’amore: Tutti i tempi umani fusi in quel bacio tuo suo, vostro. Ecco la parolina magica, il sintagma che traduce il resoconto particolaristico nel racconto del dettaglio: gli altri. Perché non mi sono mai preoccupato di loro, del destino atroce del cosiddetto mio prossimo, quello più anonimo è lontano…? Dice il protagonista de La salvezza, introdotto da un esergo, come tutti i racconti della raccolta, questa volta di una poesia di Amelia Rosselli e un passo dal Genesi sull’Arca di Noè. Una cronaca in forma di lettera che ricorda un racconto dello scrittore di fantascienza P.K. Dick che però vira verso un’evidenza quasi zen: soltanto la tua assenza assoluta, l’unica presenza che l’amore mi abbia mai davvero concesso. Amore: è questo l’altro sintagma che guida le azioni, e tutto quello che all’amore è riferito: la fine, l’assenza. Amore e sovversione. Al compleanno, ad esempio, un insieme di situazioni familiari intrecciano una trama che non rispetta il corso naturale delle cose: una madre che resta giovane mentre la figlia invecchia e diventa nonna a sua volta: quando aveva cominciato ad invecchiare la mia bambina?

    È sempre in gioco il travisare le gerarchie non per provare uno stupore gratuito, ma per meglio raccontare i rapporti umani, le dialettiche dell’essente immaginarie colte nella realtà della loro sempre possibile impossibilità. Insomma sempre di limiti si parla e contorni, il contorno della Cosa, del godimento primario, direbbe Lacan: ho sempre scelto in base alla forma, perché è tutto lì, nei contorni, ai margini, nell’eco del recipiente sapientemente percorso, dice il protagonista ossessivo di Abitando: è qui con sapienza che l’autrice riesce a far coincidere avvenimenti straordinari e attaccamento alla parola, perché non sia un gioco fine a se stesso, perché, purché si sappia armonizzare i toni, tutto può essere detto, ma siate consapevoli delle parole. Non sono sputi infetti da scagliare nel vuoto, a casaccio, arrotondatele, assaporatele e poi accompagnatele. È qui, in fondo, che un abbozzo di etica della scrittura si fa strada, in sordina. E anche la postura del pensiero che, per quanto ucronico, costruisce luoghi accessibili all’incanto della favola. E non sono le favole luoghi impossibili ma profondamente umani e morali in grado di insegnare? Anche quando i temi sono grotteschi e perversi come nel lungo e godibilissimo dialogo di Animalìe (gioco di parole per Anomalie? Può essere…). Perché la verità è che, come si dice nella cronaca dei Matrimoniali, tutte le storie garantiscono sempre una mezza verità, una tutela parziale.

    E oggi abbiamo bisogno di storie, come si scrive sull’autobus di Episodi, dove una donna insegna a raccontarle (le storie), perché la nostra vita è ormai senza storie, e anche la nostra letteratura non ha storie, non è più storia e ci invita a una rieducazione musicale…

    Queste cronache ci riabituano alla complessità degli atti e degli attimi emotivi, ci fanno pensare in modo diverso: molto può apparire curiosamente normale se si pensa al di là dei concetti senza passarvi attraverso. Sono anche, e soprattutto, un esercizio contro il narcisismo, che ci abitua a uno sguardo differente, come ci dice Ritorna: cedere il racconto a un animale, un oggetto, uno sguardo inedito, come ne L’uomo duplicato, di Saramago… senza essere lugubri, ma anzi estremamente vitali, questi racconti, queste cronache ci aiutano a svuotare, buttare, scuotere le nostre abitudini mentali, ci aiutano a rafforzare il desiderio di mutare approccio alla realtà e, perché no, ai problemi, imparare da lei, della morte, a sembrare altro, non lasciarci prendere dal sordido, dal rassegnato presagio della vita, ma godere, liberarci come felici, intanto. Buona liberazione!

  5. Francesca Caminoli

    Variabili in amore
    di Francesca Caminoli, Leggendaria, gennaio 2016

    Scorre come un torrente in piena Cronache da una impossibilità, primo libro di narrativa di Mia Lecomte, poetessa (ha pubblicato Terra di risulta, Intanto il tempo, For the Maintenance of Landscape), scrittrice di libri per bambini (Come un pesce nel diluvio, L’altracittà), studiosa di letteratura transnazionale italofona, redattrice di varie riviste letterarie e di poesia, collaboratrice dell’edizione italiana di «Le Monde diplomatique», ideatrice e membro della Compagnia delle Poete, composta da una ventina di poete straniere e italo-straniere accomunate da una particolare storia personale di migranza, che scrivono in italiano. Un torrente d’alta montagna con cascate, gorghi, rapide, dove non è dolce naufragar ma stimolante di sicuro. Perché le parole dei dieci racconti di Mia Lecomte danno più brividi dell’acqua gelida che scende dai ghiacciai: «[…] siate consapevoli delle parole», scrive in Abitando. «Non sono sputi infetti da scagliare nel vuoto, a casaccio, arrotondatele, assaporatele e poi accompagnatele». Parole da non dire, come quelle che non dice la protagonista de L’ospite: ha solo se stessa e «così compongo il mio numero di casa». Parole tremende di chi ha scelto di lasciare la vita in In exitu: «Il mio giorno sta per finire per interposta persona. In un bicchierino di plastica biodegradabile offerto da una delle poche associazioni al mondo che prevede la morte su ordinazione, e assiste». Parole che sono anche sperimentali: che cosa è vero nel racconto Costrutti? Quello che viene detto o quello che viene pensato, messo tra parentesi? «Ero un uomo (cosiddetto) di mezza età (ora son ben oltre, un discreto tre quarti) e non ero ancora riuscito a realizzare (forse soltanto sperare) niente di quello in cui avevo creduto (o mi avevano fatto credere, è lo stesso)». Parole quasi tutte tra uomini e donne, a esprimere ogni cosa, anche l’indicibile. Come arrivare ad offrire all’amato una donna, «proprio quella che lui vorrebbe, la sua donna» del racconto L’ospite, per «restituirgli la vita tramite il femminile più generico, sostantivo singolare, di genere. Quel femminile, senza distinzioni, dell’insondabile inespresso maschile. Della memoria e dell’aspettativa». È soprattutto quando si arriva a una certa età, ed è «da tempo che il corpo segue le proprie logiche, ma un tratto si fanno evidenti, escono dalla clandestinità», ne Al compleanno, che le parole tra uomini e donne si fanno, se possibile, più diverse. Dice lei nella lettera al suo amore in La salvezza: «Non potrei fare più a meno, neppure adesso, della certezza di questa nostra preghiera quotidiana, senza la quale la mia vita non detta cesserebbe di essere, la tua non ascoltata non sarebbe mai stata»; mentre lui, nel racconto Ritorna «forse pensava che in un futuro non troppo lontano avrei avuto il piacere di aiutarlo a catalogare in bell’ordine tutte le donne della sua vita. […] Ci sarebbe stata anche la mia brava iscrizione, ovviamente, e avrei saputo accettarla di buon grado, come ogni vera donna». Ma forse, come conclude l’ultimo racconto, saremmo (saremo) stati «come felici, intanto». Nonostante/per tutte quelle variabili dell’amore che Mia Lecomte tanto bene ci fa vedere o intravedere.
    Leggendaria n.115 (gennaio 2016)

  6. Alfredo Ronci

    Cronache da un’impossibilità
    di Alfredo Ronci, Il Paradiso degli Orchi

    Degli uomini mi piace la pelle, l’involucro, il rivestimento. Mi piace stare vicini, vicinissimi e toccare, toccarla. Dove è calda, bollente: sulla nuca, dietro e dentro le orecchie, le ascelle, sulla pancia, dentro gli inguini, le natiche, sotto i testicoli.
    Più tiepida: la fronte, il collo, le spalle, la schiena, il sesso rilasciato, le gambe. Più fresca, fresca: le guance, le labbra, l’interno del braccio, il dorso della mano, la pianta dei piedi, le dita intorpidite.
    E scrutare dentro gli occhi, attraverso le ciglia, l’iride, le pupille, la cornea, i lobi occipitali, la corteccia, la dura madre.
    Sembrerebbe… della serie… un sorriso, un rigo appena.
    In realtà ho colto più di un rigo dell’opera narrativa della Lecomte, per far capire dove sta andando e cosa si prefigge.
    Non è la prima volta che mi dedico ad un autore/autrice che svolge di più l’attività poetica che quella narrativa. E nella stragrande maggioranza dei casi, l’esito di un prodotto simile ha le sue differenze.
    La Lecomte, pur accettando i fraseggi e l’attività seriale della poetessa, opera in un senso che potremmo davvero definire narrativo. E non è cosa semplice a dirsi (tanto più a farsi). Il suo modo di scrivere appartiene, è il caso di dire, allo scrittore patentato, più che al poeta consolidato.
    Non è tanto per quello che racconta (se devo essere sincero, preferisco di più le storie sospese che non quelle reali, e L’ospite, per esempio, ha un sua continuità narrativa che non riesco a vedere negli altri racconti), ma per come lo sa incubare, appuntando la sua letteratura, ma non trasformandola come fosse il poeta (poetessa) preso e colto chissà da dove.
    La Lecomte è viva ma non stra-viva, come spesso fanno gli inchiostratori della domenica che perdono il loro tempo a esistere, malgrado gli altri.
    Ho detto, c’è anche qualcosa che non funziona, che lascia trasparire una ricerca di spirito e linguaggio che va oltre le esperienze dello scrittore. Ma noi possiamo anche aspettare.
    Chissà che la redattrice del semestrale di poesia comparata Semicerchio non sia in grado poi di regalarci una profondità in questo caso appena abbozzata.
    Leggi la recensione nella sua pagina web

  7. Claudio Bagnasco

    Cronache da un’impossibilità
    di Claudio Bagnasco, Squadernauti, 5 febbraio 2016

    Il tentativo di moltiplicare la propria esistenza in più identità, in più corpi, per l’incapacità di accettare forse l’univocità della vita, forse l’inevitabilità della morte: questo motivo attraversa i dieci racconti che compongono Cronache da un’impossibilità di Mia Lecomte (Pescara, Quarup, 2015).

    Costrutti è una breve narrazione contrappuntata da una fitta serie di parentesi a commento del testo. Si tratta di una sorta di confessione da parte dell’io narrante che, nell’illustrare il proprio ruolo professionale, lo ricalca, come se esso si fosse dilatato al punto da coincidere con l’intera sua persona: “E io mi dedico con una certa maestria (ci vuole, non è un impegno da poco) a scrivere (scrivo infatti) i traparentesi dell’autore più importante della casa editrice, il mio scrittore preferito (perché non se li scrive da sé? Non me l’hanno spiegato, e in verità non ho mai sentito l’esigenza di saperlo)”, p. 12.

    La protagonista de L’ospite telefona di continuo alla casa che fu sua e che continua a essere abitata dal suo ex compagno: fa squillare il telefono ma non osa parlare. Così, istituendo in un certo senso una comunicazione priva di contraddittorio col proprio passato, la donna può illudersi di prolungarlo nel presente. Il rifiuto del tempo rettilineo della realtà a favore del tempo circolare del desiderio investe anche la nuova relazione intrecciata: “Scivolo piano lungo il suo corpo e mi faccio vicina, la testa sulla sua pancia. Vorrei che non si svegliasse. E che tutto si svolgesse senza di lui”, p. 22.

    Sul medesimo crinale tra verità e immaginazione è ambientata La salvezza, una lettera d’amore di cui non è dato di sapere il grado di autenticità. Il piano metaforico, rappresentato dal continuo riferimento a un’arca e a un naufragio, arriva a mettere in dubbio persino l’esistenza del destinatario: “Spesso, come in ogni preghiera degna di questo nome, mi sono chiesto se fossi davvero tu il destinatario prediletto, oppure se stessi scrivendo a un’astrazione, a un me stesso reso tollerabile dalla distanza”, pp. 53-4.

    Il protagonista di Abitando è un individuo in continuo movimento, giacché la sedentarietà gli mostrerebbe il quotidiano compiersi (e raccorciarsi) del proprio percorso biografico: “Sempre in viaggio sono più tranquillo. Abitando in maniera transeunte luoghi che non hanno nessuna implicazione con me, da nessuna parte del mio vivere, riesco a schivare le offese, a contenere le lacerazioni”, p. 71. Soffermarsi in un luogo, poi, lo costringerebbe a vivere appieno esperienze ed emozioni, nonché tutte le loro conseguenze: “Non sono curioso, la curiosità riserva sempre cattive sorprese, folate di scompiglio nella prevedibilità esteticamente rassicurante delle giornate che desidero”, p. 73.

    Il bizzarro Animalìe comprende tre micronarrazioni nelle quali si tenta di rigenerare la propria esausta vitalità attraverso la strumentalizzazione del mondo animale: “Volevo dimostrargli che c’ero, che esistevo, che il mio corpo occupava uno spazio, era un solido. Volevo fargli sentire il peso della mia corporalità, afferrarlo con violenza e stringerlo tra le mie dita forti, le dita di una donna. Mi sono avvicinata alla boccia e mi sono arrotolata una manica della camicia. Ho tuffato il braccio nell’acqua e appena ho aperto il palmo nel tentativo di afferrarlo lui è venuto a coricarvisi da solo, come un uccellino. Era leggero, fragile, le sue branchie palpitavano come un cuore tiepido”, p. 87.

    Tip, il protagonista di Ritorna, entrando in una libreria scoprirà un volume il cui autore, a propria insaputa, è… egli stesso. Ne acquisterà e inizierà a leggere una copia, e da allora il racconto si sdoppierà: seguiremo in tondo la vicenda di Tip e in corsivo quella narrata nel “suo” libro. Ancora una volta, sarà la mancata accettazione della fine di una storia amorosa a tenere il protagonista in bilico tra realtà e finzione. Come se spaziando da un territorio all’altro Tip potesse parificare fatti e fantasie, invalidare l’accaduto e concretizzarne l’alternativa: “Se ne era andata, aveva avuto il coraggio e l’energia di farlo, e lui ora non era neppure in grado di rendersene conto per davvero, non aveva neanche iniziato a chiudere la porta lasciata spalancata dall’abbandono, di tamponare lo spiffero. E ci si metteva anche quell’altra, più lenta e inconcludente di lui. L’eroina di quell’autore pavido, posticcio. Ci mancava proprio la faccenda di quel benedetto libro!…”, pp. 119-120.

    Ma non solo. Questa coesistenza di piani narrativi la si potrebbe eleggere a significato ultimo dell’intera raccolta. Infatti, il lettore di Ritorna finisce per non distinguere più cosa appartiene alla storia di Tip e cosa a quella che egli pare abbia (suo malgrado) scritto. Il lettore finisce, insomma, per accettarle entrambe come ugualmente finzionali o ugualmente vere.

    Allo stesso modo, sembra dirci Mia Lecomte, ogni esistenza si fonda sulle occasioni mancate non meno che su quelle colte, sui sentimenti non meno che sulle azioni, sull’inconsapevolezza non meno che sulla coscienza, sui vuoti non meno che sui pieni. E se una parola detta o un gesto realizzato possono celare un profondo bisogno di fuga dal mondo, una reticenza o una rinuncia possono al contrario portare in sé la più grande pienezza di vita.

    In fondo tutto non è che resistenza al limite estremo, tentativo di superamento dei confini, siano essi corporei o esistenziali, patetica-eroica sfida lanciata all’angusto àmbito in cui ci è dato di vivere.

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  8. Franco Foschi

    Mia Lecomte, Cronache da un’impossibilità
    di Franco Foschi, Argonline, 17 gennaio 2016

    Per scrivere un racconto, si sa, ci vuole un’idea forte. E bisogna sentire, molto più che per un romanzo, una musica interna, un ritmo, che ti dica quando il racconto è finito – perché il racconto è una canzone, non un’opera. Anche il più minimalista degli scrittori sa che un racconto lo sostengono quelle quattro o cinque vertebre impilate, che non puoi sfilare via senza che il racconto si afflosci.

    Mia Lecomte invece è il contrario della scrittrice minimalista. Non ha paura di niente, del mistero se necessario, del sesso se necessario, del pianto se necessario, di una corsa o del nervosismo. E ogni suo racconto ha una spina dorsale robustissima.

    Innanzitutto bisogna dire che la capacità di gestire la misteriosità di una storia, senza apparire banali o scontati, è assai difficile: ma gli snodi narrativi di Lecomte (che siano chiariti o no) non sono mai troppo leggeri, o superficiali, o ovvi. Facile ricordare una delle grandi passioni di chi legge racconti, Cortázar, una delle poche passioni che resiste al tempo. Questi racconti, dunque, oscillano quasi tutti sulla lama del mistero senza mai subire ferite, incontrano uomini, il sesso, la solitudine con un dinamismo fremente, mai abbandonandosi alla lentezza.

    A sostenere il tutto c’è la scrittura molto personale dell’autrice, basata sia sulla spigliatezza che sull’eleganza, si sente che c’è molta cura ma non l’eccesso di cura, che rende certi testi faticosi e artificiosi – mai si potrà dire, in questo caso.

    Ancora, un particolare che colpisce molto il lettore è il piglio deciso con cui Lecomte arriva tangente alla volgarità di certi argomenti senza però mai lasciarti prendere la mano (quando cioè l’erotismo diventa laido).

    Avrei voluto segnalare qualcuno dei racconti che mi sembrava più meritevole, ma risfogliando il libro ora mi rendo conto che tutti, come ho già accennato, sono dotati di spina dorsale robustissima, che non ci sono stanchezze (forse si odia un po’ Lecomte perché nel racconto più cortazariano, L’ospite, cresce talmente tanto la tensione che non si vede l’ora di arrivare al climax, che invece viene posticipato), che non cala mai nemmeno la tensione della scrittura… insomma, poche balle, un libro ottimo! Nessuno resterà deluso.
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  9. Fernanda Ferraresso

    Note di lettura su Cronache da un’impossibilità
    di Fernanda Ferraresso, Cartesensibili, 26 dicembre 2015

    Tutto il libro merita una lettura partecipe e attenta, perché è una continua vigilia di senso da dare alla vita mentre è la vita che ci viene incontro e da tutto traendo auspici e lezione per un vivere più ricco e solerte nei confronti dei luoghi e delle persone perché tutto e tutti si fanno interiori, si sostanziano in noi e di noi e niente è possibile cancellare, annullare nell’indifferenza con cui noi stessi ci guardiamo nascosti dietro a make up che ci rendono sempre più uguali in superficie e nel profondo, annullando l’ampiezza dei mondi che ognuno di noi è. Per questo nulla deve andare perduto e si perde, di fatto, poiché ognuno di noi è un tratto di memoria della scatola nera che raccoglie l’intero volo. Chi-amare qualcuno è un segno, tanto quanto le epigrafi che Mia richiama ad ogni racconto, in memoria e comunione, un netto bisogno di vicinanza, forse anche quel chiamare, anche se sembra paradossale, anzi quel chiamarsi al telefono per avere una risposta è una segnalazione chiara di Mia Lecomte per dirci che è verso noi che dobbiamo ridisegnare e ricostruire il primo tratto di congiunzione, è verso di noi alla volta di un mondo che apre le porte a tutti gli altri, che dobbiamo viaggiare senza bagaglio se non la presenza, ogni volta viva e diversa, attenta e, nostro compagno di viaggio, l’amore, per ora anch’esso spaesato, impaurito, spelacchiato, ingrigito o arso vivo, tra le tante faccende che ci fanno scordare cosa sia davvero importante ed esplode spesso con modalità incomprensibili e terribili, proprio per svegliarci da quel torpore denso dentro cui siamo immersi da troppo tempo. Anche se non è semplice, niente lo è, nè nascere né morire, né tanto meno vivere, è questo nostro progredire, insieme, il tratto più forte, l’epicentro del terremoto che trasforma le nostre vite se è amore a promuoverlo.
    Traggo dalla bellissima raccolta, che porto come dono di Natale un racconto: La salvezza (pag 53-59). Il libro, edito da quarup, è freschissimo di stampa e verde la sua parola è un agrifoglio brillante di lettura.
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  10. Alida Airaghi

    Intervista a Mia Lecomte
    di Alida Airaghi, SoloLibri, 22 dicembre 2015

    Mia Lecomte si occupa di letteratura transculturale italofona e in particolare di poesia. Poeta, narratrice, autrice di teatro e per bambini, tra le sue pubblicazioni più recenti si ricordano le raccolte poetiche Terra di risulta (2009) e Intanto il tempo (2012).

    Ci vuoi dare alcune coordinate sulla tua vicenda biografica, a partire dalle tue origini familiari, fino alla tua esistenza attuale?
    Sono nata a Milano e cresciuta in Svizzera. Ho fatto i miei studi universitari a Firenze e poi ho vissuto più di vent’anni a Roma, residenza che ora divido con Parigi. Ho tre figli – sparsi tra Italia, Inghilterra e Francia – e altrettanti gatti. Mio padre Yves era francese, un poeta, e devo a lui molto di quello che faccio, di quello che continuo a scegliere di essere.

    In campo specificamente letterario, di cosa ti occupi e su quali fondamenta hai radicato la tua scrittura?
    La mia scrittura è totalmente “sradicata”, e questa è forse la sua caratteristica principale. È nata in famiglia, appunto, con mio padre, dalla traduzione dei suoi testi poetici dal francese, a cui mi chiedeva quotidianamente di partecipare. E dunque come transito, e tra le mura di una casa, di un paese, che dovevano essere una scelta provvisoria, una situazione di passaggio prima di stabilirci definitivamente in un ben identificato altrove. Una situazione di confine, sul confine, in cui gli unici elementi certi erano appunto l’affetto, la complicità, che passavano in questo scambio esclusivo di parole. Il resto è venuto da sé: la mia poesia, appunto, ma anche la narrativa per bambini e non, e il teatro; e gli studi di comparatistica approdati alla letteratura della migrazione italofona, di cui mi occupo, editorialmente e accademicamente, da moltissimi anni. Tutto questo accumunato, come dicevo, da una relazione intima, “amorosa” con la parola, in tutte le sue incarnazioni, volutamente lontano dai luoghi, più o meno di potere, che mi sembrano sfruttarla, violarla.

    Se anche attiva in ambito teatrale: quali sono i risultati che più ti hanno dato soddisfazione e invece in quante difficoltà ti sei imbattuta?
    Amo molto in teatro, nei miei primi anni romani mi sono molto divertita a scriverne e abbiamo realizzato diversi spettacoli. Ma mi piace moltissimo anche la musica, cantare, e la danza – di tutti i generi, a un certo punto ho perfino rischiato di diventare una ballerina di flamenco!… – e ora ho convogliato tutte queste passioni nella Compagnia delle poete, che ho fondato nel 2009 e di cui sono membro. Si tratta di una compagnia, appunto, poetico-teatrale di una ventina di autrici, tutte straniere e accumunate dalla scrittura in italiano: http://www.compagniadellepoete.com. La Compagnia è stata anche lo sbocco naturale di anni di studio di questa nuova poesia italiana – la vera avanguardia della poesia italiana, a mio parere –, e un modo per riportare la poesia a un pubblico reale, di restituirla alla sua funzione di oralità “condivisa”. E di farlo tra amiche, in un contesto, ancora una volta, affettivo – Armando Gnisci ha definito la Compagnia “il luogo mobile della creatività e della concordia” –, en famille.

    Come traduttrice, in quali autori ti sei più riconosciuta?
    Non saprei. Non traduco molto. E solo poesia contemporanea. Fra gli ultimi poeti in cui mi sono cimentata, potrei citare l’haitiano James Noël per la grande originalità della sua poesia, proposta inoltre, come mi piace, con il generoso coinvolgimento di altri artisti, nel rimescolamento con altre arti.

    Quali sono le tue pubblicazioni più recenti e quale, in assoluto, quella a cui tieni di più?
    L’ultima mia raccolta poetica, Intanto il tempo, era del 2012, e nel corso del 2016 arriverà la prossima, Al museo delle relazioni interrotte.
    Ma tengo moltissimo al mio ultimissimo libro, appena uscito per Quarup, piccolo e raffinato editore di Pescara: Cronache da un’impossibilità. È una raccolta di racconti più o meno recenti, scritti nel corso degli anni “in margine” alla poesia. Trattano tutti di situazioni impossibili, amorose in particolare, riconducibili ad un’unica impossibilità: quella di essere, di esserci. Insomma, sono tutte autobiografie non vissute – come si intitolava una mia raccolta poetica del 2004 – , ma confesso che il fatto che siano esposte in una pubblicazione, mi crea anche un certo imbarazzo, disagio. Abituata ai travestimenti, anche solo musicali, della poesia, ritrovarmi così, in déshabillé, alla mercé del racconto, mi riporta di colpo al panico dell’adolescenza, nascosta nella toilette di una festicciola… Ti sto leggendo, mi dicono gentilmente gli amici, e non sanno fino a che punto, e con che conseguenze, sia vero.

  11. Raffaele Taddeo

    Cronache da un’impossibilità
    di Raffaele Taddeo, el-ghibli, dicembre 2015

    Nel mondo d’oggi la fantasia è quasi sempre superata dalla realtà. I fatti di cronaca ci presentano ogni giorno avvenimenti che non ci saremmo neppure sognati né avremmo immaginato. La fantasia è comunque legata ad una certa logica, seppur aleatoria in molte sue manifestazioni. La realtà a volte cozza proprio contro la logica, la corrispondenza di causa ed effetto.

    Lo scrittore, il letterato allora cerca allora di coniugare la fantasia con qualcosa d’altro, con qualcosa che va oltre la logica, che va oltre il prevedibile, che va oltre l’appagamento razionale anche della fantasia. Ecco che ci si trova davanti a storie che hanno dell’impossibile, del non avvenuto, né avvenibile. Bisogna cercare in tutti i modi di essere superiori alla realtà, di superarla almeno coll’assurdo dell’immaginazione.

    Siamo nel postpostmoderno ove neppure più l’io si pone un qualcosa in cui credere, ove non c’è neppure il nichilismo a cui aggrapparsi perché anche il nichilismo sarebbe un elemento di riferimento ed in qualche modo razionale.

    È in questo contesto culturale che nascono i racconti di Mia Lecomte raccolti in questo testo, la cui caratteristica fondamentale oltre alla omologia del senso con il clima culturale dei nostri giorni è centrata anche in una sorta di sperimentazione anche formale. Nel primo racconto intitolato Costrutti la sperimentazione è basata sull’evidenziazione del pensabile o pensato, posto fra parentesi, solitamente sottratto allo scritto perché questo deve essere più controllato, più ineccepibile, costruito per sottrazione, come direbbe Calvino. È quindi un sovvertimento delle regole dello scrivere letterariamente. Ma allora ci si pone la domanda se alla fin fine col sottrarre non si finisca per sconvolgere perché il senso rimarrebbe tutto nel non detto anzi nel non scritto piuttosto che in quello che rimane pur se formalmente più letterario e corretto. Sperimentazione formale che si sviluppa anche in Ritorna, racconto in cui uno scrittore alla fin fine non riesce, non sa più riconoscere il suo libro, quasi che la vicenda, la narrazione stesa, scritta e stampata porti ad una specie di alienazione ad una spersonalizzazione in una sorta di sdoppiamento della personalità divisa fra autore e personaggi della trama dello scritto.

    Senza entrare nell’analisi di ogni racconto si può certamente dire che alcuni di essi rasentano l’assurdo come L’ospite e si rimane sconcertati perché sembra proprio qualcosa che non può per nulla accadere, ma nella imprevedibilità degli accadimenti alcuni racconti sono intrisi di umanità e di poesia come In exitu perché il ritrovarsi ad essere riabbracciato, ripescato nella corporeità quando si è deciso di abbandonare il proprio corpo e distruggersi è quanto di più umano e solidaristico possa avvenire.

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  12. Clotilde Barbarulli

    Cronache da un’impossibilità
    di Clotilde Barbarulli

    Se, come dice Lecomte per i testi dell’emigrazione, la scrittura è cercare soprattutto di costruire il proprio luogo, un universo in cui trovare ragione d’esistere, questi suoi racconti di storie (im)possibili esprimono una poetica intessuta di perdita, solitudine, transito, straniamento, un ragionare e fantasticare intorno al sé, all’amore, alle relazioni: «tutte le storie garantiscono sempre una mezza verità». Nei vari registri narrativi l’autrice attraversa i confini del tempo, dello spazio, della realtà: tra visionarietà e dissacrazione dei luoghi comuni sul vivere, è un viaggio nella non-appartenenza sui crinali fra cose e persone, emozioni e affetti, dilatando con le parole, immerse nel fluire del linguaggio, «la frontiera – come dice in una poesia – della pelle dentro e fuori». Una interrogazione inquietante sull’io- mondo che varca la soglia dell’abituale: così l’io narrante di Abitando, una volta realizzata la perfezione formale della propria casa, decide di viaggiare per sentirsi «libero» da qualsiasi implicazione emozionale, ma la vita con il suo «disordine», accuratamente evitato, finisce per perturbarlo comunque. Disfacendosi di ricordi e affetti, della casa stessa e degli oggetti, partendo e cambiando di continuo treni, crede infatti di poter avere «l’essenziale» di sé sempre con sé, aggirando così situazioni «insostenibili». Nel suo sradica- mento fa della prevenzione una ragione di vita, ma basta il ritrovamento di un biglietto abbandonato a evidenziare l’(im)possibilità di una fuga perenne da sentimenti, oggetti, persone perché la vita con le sue presenze impalpabili s’insinua ovunque. Una scrittura metaforicamente intensa come a significare che l’abitare, il modo con cui viviamo le cose che ci circondano e che hanno scandito la storia della propria esistenza, il modo in cui entriamo in relazione con l’altro/a, non possono essere che intessuti di emozionalità, di spaesamento, di paure e di aspettative, mentre le parole sembrano a volte danzare a volte inseguirsi in una continua erranza.
    Le Monde Diplo 150116 (Cronache)

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