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Una idea di letteratura
Dalla Libia all’Europa, storia di un giornalista schiavo delle milizie


Repubblica.it – 04 gennaio 2021

Alpha Kaba è un rifugiato della Guinea. Nel suo romanzo biografico racconta cosa significa nascere dalla parte sbagliata del mare, lottare per la libertà, la dignità e infine la sopravvivenza. E ci inchioda alle nostre responsabilità: non possiamo fingere di non sapere.

Schiavi delle milizie è un libro crudo, tagliente, necessario. Leggerlo è una presa di coscienza, un atto politico: aiuta a riconoscere quel che non possiamo più negare: la cattura, il respingimento, l’internamento dei migranti in strutture ufficiali ad opera della guardia costiera libica, equipaggiata e finanziata dall’Italia e dall’Europa, è solo l’ennesimo ingranaggio di un sistema disumano. Lo ha scritto un giornalista che in quelle strutture ha passato mesi ridotto in schiavitù e che oggi dice: “Non posso tacere. Il mio lavoro è parlare a nome di tutte quelle persone che sono ancora là”.
Alpha Kaba è un rifugiato politico: nato in Guinea, oggi vive a Bordeaux. Nel romanzo biografico “Schiavi delle milizie” – scritto insieme al collega francese Clément Pouré, edito in Italia da Quarup con prefazione di Nello Scavo (trad. di Sarah Ventimiglia, euro 14,90) – racconta la storia di un uomo nato dalla parte sbagliata del mare. Un uomo che credeva nella libertà, costretto a lasciare la sua terra e a scoprire sulla propria pelle cosa sia il razzismo. Un uomo che dopo avere attraversato un inferno di deportazione e prigionia, riesce ad arrivare in Europa e a riprendere in mano la propria vita.
La storia di Kaba comincia in una capanna a Bokè dove nasce nel 1988 e continua in una grande casa: un padre con tre mogli e 17 figli, i più grandi si occupano dei più piccoli, un’infanzia serena. La madre vuole che studi perché diventi quello che lei chiama un “intellettuale”. Lo iscrive in una scuola privata, a cinquanta chilometri da casa. è l’inizio di tutto: le lezioni in francese, i ramoscelli raccolti per imparare a fare di conto, le prime scoperte letterarie tra cui I soli delle indipendenze – severa critica al colonialismo di Ahmadou Kourouma – e poi l’esperienza dell’esilio nei libri di Tierno Monènembo. E il grande amore – Hassiatou, una ragazza da cui tutto lo divide a cominciare dalla religione e dall’etnia, lei è fulani, lui malinke. Finanziato da uno zio ingegnere in Europa, Boké continua a studiare mentre il suo paese precipita nel caos: i bus non circolano più, gli ospedali funzionano a scartamento ridotto, quasi tutti gli uffici amministrativi restano chiusi, nemmeno i ristoranti aprono più i battenti, migliaia di persone chiedono le dimissioni del governo di Lansana Conté.
Kaba, che ormai è un liceale, partecipa alle manifestazioni, sa di essere un privilegiato perché può studiare ma dentro di sé prova un forte senso di solidarietà verso i più deboli. Nel frattempo conosce la radio, s’innamora di alcune trasmissioni culturali e, grazie a un professore, inizia a parlare al microfono. Nel quartiere lo chiamano per commentare partite di calcio, spettacoli di danza, artisti. Presto deve rinunciare: Hassiatou è incinta, e il governo decide che dovrà studiare geografia. “Non è possibile contestare questo tipo di decisioni, posso solo dire sì o no. Dunque accetto”. I corsi non gli interessano, ha bisogno di soldi, inizia a fare lavoretti. “Se la mia passione non avesse bussato di nuovo alla mia porta, se non avessi avuto un segno, avrei sicuramente trascorso così la mia vita”.
Un giorno mentre ascolta la radio – lo fa sempre appena ha del tempo libero – il presentatore lascia il suo numero di telefono. Lui, d’istinto, gli scrive, spiega che il suo sogno è fare il giornalista, si propone per uno stage. Il giorno dopo arriva la risposta: sì. Inizia la gavetta, si fa spazio in radio, conosce Moussa Diawara, il presidente dell’associazione degli studenti della sua università, personaggio popolare, volto della gioventù che ascolta la radio pirata e ha sete di cambiamento e libertà. Suo malgrado diventerà anche lui un portavoce di quella nuova generazione di studenti africani. Ha uno stipendio, fa quello che sogna, offre agli ascoltatori uno spazio di libertà che lo Stato nega. Quando, grazie alla padronanza del francese e di ben tre lingue locali, copre in radio la visita di Condé a Kankan e traduce in diretta gli interventi degli ascoltatori, la sua vecchia vita finisce.
In strada scoppiano disordini, il regime accusa la radio di esserne l’istigatrice. Kaba scappa nella notte e si rifugia da un amico. Non importa che lavori per una piccola emittente locale: per il regime è un uomo libero e quindi pericoloso. Se lo prendono sarà massacrato di botte, torturato, destinato al carcere. Scappa con una vecchia moto, il confine con il Mali è un colabrodo, arriva a Bamako, ma non si può fermare: potrebbe essere riconosciuto da qualche guineiano di passaggio, tradito e rispedito indietro. Deve continuare a fuggire.
Kaba racconta il suo viaggio della speranza con la precisione del cronista: le tappe, i chilometri, i compagni di sventura, uomini e donne dell’Africa subshariana, i soldi pagati ai passeur, le labbra arse dalla sete, la sabbia e il vento, i dettagli che lo trasformano in un “diamante nero”, merce preziosa da rivendere nell’inferno della Libia. Racconta l’umiliazione provata quando lo spogliano del suo bagaglio – pochi oggetti che testimoniano come prima di diventare un migrante avesse avuto una compagna, una figlia, un lavoro, degli amici, una passione divorante.
Ricorda e scrive ogni dettaglio dei libici che lo hanno comprato: la fede al dito e gli occhi azzurri del mercante che lo esamina prima di stabilirne il valore, 350 dinari. Mentre lavora, piegato dalle violenze, ripensa alle lezioni di storia, all’epoca dello schiavismo, alle responsabilità non solo del mondo occidentale, ma anche di quello arabo, ai neri vittime di grandi pogrom ancora nel 2000, proprio in Libia, e la concretezza di quella realtà gli piomba addosso: ora anche lui è uno schiavo. Resiste come può. Annota ciò che accade, capisce che in Libia la guerra è ovunque, lo Stato non ha più potere, le milizie – tribali, religiose, di semplici mercenari – regnano sovrane. Bastano una stanza vuota e un catenaccio perché un libico possa mettere su la sua prigione privata. “Nessuno gli impedisce di fare prigioniero un negro, anzi, diciamo che ormai la cosa è del tutto normale”. A ogni cambio di prigione e di padrone teme sempre le stesse cose: le percosse, la morte, la follia. Passa di mano in mano, finisce nel campo di prigionia ufficiale di Zawyah – quello da cui provenivano gli uomini condannati a 20 anni di carcere come torturatori dal tribunale di Messina nel 2000 con un verdetto senza precedenti.
Il suo inferno personale dura due anni, fino a quando uno dei tanti padroni promette, se lavorerà bene, di liberarlo e di aiutarlo a raggiungere l’Europa. Non ci crede, ma accade veramente. “Forse, come ogni uomo potente, sperava che una buona azione bastasse a fare di lui un uomo buono”. Kaba non ha parole dolci per il suo “liberatore”, sa che è una persona orribile e che avergli ridato la libertà non riparerà mai la colpa di averlo comprato al mercato e poi sfruttato come fosse un animale. Quando attraversa il Mediterraneo è un automa che risponde solo alle percosse e agli ordini. La sua imbarcazione naufraga e sette persone muoiono. Sarebbe annegato anche lui se non fosse stato per l’Aquarius, nave umanitaria dell’ong Sos Méditerranéè, che li soccorre.
Prima in Italia e poi in Francia dorme per strada, non sa dove andare e cosa fare, suo padre è morto, la sua compagna anche, stroncata da una violenta malattia. Non ha alcuna rete di supporto psicologico eppure Kaba ancora una volta non si arrende: sente la necessità di testimoniare quello che gli è accaduto, collabora a un documentario di uno studente di giornalismo, conosce professori che decidono di aiutarlo a integrare la sua formazione con un corso di perfezionamento, infine decide di scrivere un libro per raccontare il meccanismo che lo ha schiacciato. Oggi Kaba fa il magazziniere per pagarsi l’affitto, continua a cercare un lavoro adeguato ai suoi titoli di studio, risparmia e lotta per fare in modo che sua figlia lo raggiunga. Ci costringe a riconoscere, come scrive Nello Scavo nella prefazione, che non potevamo non sapere.

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